Nella prima parte di questo articolo, abbiamo visto alcune semplici tecniche per modificare le qualità acustiche del nostro dialogo interno: posizione nello spazio, tono di voce, volume, eccetera.
Se queste semplici metodiche possono essere di grande aiuto in quanto vanno ad impattare sulla nostra esperienza, la potenza delle tecniche dialettiche e retoriche rappresenta qualcosa di completamente diverso.
In effetti, seguendo alcune semplici indicazioni andremo a trasformare quella vocina in un alleato interno al quale chiedere informazioni, consigli. Un vero e proprio consulente. Per di più gratuito.
Tutti noi conosciamo quella vocina che ci guida e ci dice cosa fare e cosa non fare. E se avessi detto questo, se avessi fatto quello… Il sigillo sopra ai nostri sensi di colpa e le nostre frustrazioni.
A volte ce la portiamo appresso per anni e anni e la utilizziamo male, malissimo, per produrre vissuti emotivi laceranti e tossici. Per limitare le nostre capacità in modi efficacissimi. Ma da dove deriva questo dialogo interno? Perché ne siamo così condizionati?
E finiamo pertanto per portarci appresso una sorta di “folletto del malaugurio” che ci informerà che tutti i nostri sforzi non saranno utili, che se qualcosa può andare storto sicuramente andrà storto, che non riusciremo mai a superare quella prova e via discorrendo.
In effetti tutti gli esseri umani tendono spontaneamente a dare più valore ed attendibilità alla cattiva notizia (se così non fosse come spiegare l’esistenza dei quotidiani e dei telegiornali?).
Semplicemente, non funziona, anzi al contrario: lo scatena, lo infervora.
Al contrario, ascoltiamolo. Lasciamolo parlare. Cerchiamo di valutare la bontà euristica di quello che ci vuole dire.
Proviamo chiudendo gli occhi e magari aiutandoci con un respiro profondo. Accogliamo il nostro dialogo interno con una rinnovata benevolenza e incalziamolo con una serie di domande specifiche.
“Come faccio a sapere che non passerò quella prova? Su cosa baso i miei pregiudizi in merito?
Chi ha detto che non posso riuscirci?” Questa domanda ci permette di mettere in dubbio il nostro dialogo interno, orientandolo verso una visione più realistica.
“Devo sempre essere rifiutato da tutte le persone? Oppure solo da alcune?”
Questo ci permette di mettere in discussione la generalizzazione, fenomeno tipico del dialogo interno.
“Cosa succederebbe se avessi torto e riuscissi a ottenere quel posto di lavoro?” In questo caso andiamo a lavorare sulle conseguenze temute, rendendole maggiormente realistiche.
“A cosa serve esattamente ricordarsi che sono le tre del mattino e non ho ancora chiuso occhio? Credi che serva a dormire meglio?”
L’utilità è un buon punto di partenza, perché ci obbliga a focalizzarci circa il nostro obiettivo e pertanto ci porta a pensare alla soluzione piuttosto che al problema.
“Invece di torturarmi su quello che ho sbagliato, cosa posso imparare da questa esperienza e come posso migliorare grazie ad essa per ottenere un risultato diverso la prossima volta?”
Anche questa domanda, come la precedente, ri-orienta il focus della nostra attenzione circa la soluzione.
“Perché mi chiedo perché io sia così stupido? Saperlo mi renderà più intelligente, oppure mi farà sentire ancora più un pezzo di idiota?
“Ok, ha fatto una figura barbina. E quindi?”
Questa ultima domanda ha il bonus di poter essere ripetuta più e più volte, fino all’esasperazione del nostro dialogo interno, fino a giungere ad una più serena conclusione.
E come possiamo aiutarci ad aiutarci se non trasformando questo incessante dialogo interno in un valido aiutante il quale possa indicarci soluzioni, oltre che problemi? Questo è il potere di un approccio finalmente ermeneutico al nostro dialogo interno.
Questa ricerca delle intenzioni positive celate da un dialogo interno depotenziante rappresenterà il focus del prossimo articolo in merito al dialogo interno. In questo successivo articolo scopriremo infatti una potente tecnica derivata dal lavoro di Connirae e Tamara Andreas, autori di rilievo all’interno del panorama della Programmazione Neuro-Linguistica.
Se l’Insonnia dura più di qualche giorno, essa tende a diventare cronica e si caratterizza per una serie di alterazioni che si presentano durante la veglia, quali: irritabilità, diminuito tono dell’umore, astenia, disturbi della memoria, riduzione del funzionamento lavorativo e sociale.
Ce n’è abbastanza per preoccuparsene e pertanto per non dormirci su. In effetti, prima si interviene meglio è, vista la naturale tendenza dell’Insonnia a diventare cronica. Ma come intervenire esattamente?
Si calcola che l’insonnia colpisca circa un terzo della popolazione mondiale, mentre circa il 10% deve ricorrere ad un qualche trattamento di tipo medico-sanitario.
Effettivamente, raccontata in questi termini, l’insonnia rappresenterebbe un problema per il quale non dormirci la notte. Come possiamo dormire sonni tranquilli sapendo che in qualsiasi istante potremmo essere privati del nostro naturale ristoro notturno? Una situazione allarmante.
Va da sé che ogni situazione o pensiero che ci allarma, per definizione non ci permette di dormire o quantomeno rende assai più difficoltoso il sonno.
Ora, spostando il focus dell’attenzione altrove, vorrei che riflettessimo su un dato particolare.
Un’osservazione che tristemente è alla portata di chiunque e per qualsiasi motivo sia costretto a torturarsi con la sveglia al mattino (generalmente dal lunedì al sabato) è quella di notare che nei giorni nei quali si viene destati dall’odioso suono ci si sveglia stanchi maldicendo il sole e chi lo spinge ogni giorno a levarsi in cielo.
Mentre la domenica, quando finalmente pianifichiamo di goderci una mattinata intera a letto, non solo ci svegliamo insensatamente di buon umore e splendidamente riposati, ma soprattutto esattamente all’orario in cui fino al giorno prima abbiamo maledetto gli artefici della rivoluzione industriale.
Ed è proprio a partire da questa considerazione che considereremo insieme una causa dell’insonnia, forse la più comune, a cui tuttavia si presta ben poca attenzione.
In questo breve articolo, vorrei spostare l’attenzione sull’ultimo punto , quello riguardante i pensieri e le credenze relative al sonno, perché esse a ben vedere rappresentano con ogni probabilità il maggior fattore scatenante e mantenente l’insonnia.
Perché immaginare che se non dormiamo otto ore di sonno regolarmente potranno accadere ogni sorte di cataclisma, toglie il sonno. Perché il sonno, esattamente come il fatto di innamorarsi, dovrebbe avvenire spontaneamente, non dietro una precisa richiesta verso noi stessi del tipo “devo dormire adesso”.
Inspiegabilmente a mio avviso, la Letteratura psicologica in merito è arrivata con colpevole ritardo ad immaginare un modello che rendesse merito a queste ed altre osservazioni.
Secondo i lavori di Harvey (2002, 2005) infatti l’insonnia sarebbe alimentata da credenze e pensieri negativi a cascata che si catalizzano principalmente nella fase di pre-addormentamento, generando una sensazione di angoscia persistente la quale a sua volta attiva il sistema nervoso centrale, rendendo di fatto impossibile il sonno.
Inoltre, lo stato di arousal (eccitazione) del sistema nervoso centrale focalizza l’attenzione circa tutti gli stimoli ambientali e interni che impediscono il sonno.
Se riconosciamo di aver nutrito e coccolato una credenza che ricada in una di queste quattro categorie possiamo certamente ringraziare la gran messe di Specialisti che, al fine di curarci un Disturbo, hanno dovuto attivamente impegnarsi per costruirlo ad hoc.
Pensiamo al tipico medico di famiglia che di fronte alle nostre generiche lamentele (“dottore non dormo la notte”) invece di esaminare approfonditamente le dimensioni della nostra percezione del “problema” si è risolto consigliandoci un farmaco ipnotico.
Riflettiamo sul gran numero di pubblicazioni anche online che ci invitano a non prendere sotto gamba il “problema dell’insonnia” perché nel tempo dicono, tende a cronicizzarsi?
Ed ora, ritorniamo al modello di Harvey e del ruolo che le nostre convinzioni giocano sulle nostre capacità di addormentamento. Possiamo facilmente riconoscere l’esistenza di un meccanismo psicopatogenetico in azione basato sulla classica profezia che si autoavvera.
Si sente parlare spesso di “igiene del sonno” e con queste parole si intendono un insieme di abitudini “corrette” che facilitano l’addormentamento.
Tra queste come abbiamo visto rientrano l’assunzione di cibi leggeri, l’astenersi dal sonnellino pomeridiano, praticare esercizio fisico, ridurre l’assunzione di caffè e sigarette soprattutto alla sera.
Come abbiamo visto, conservare credenze e pensieri “sbagliati” rispetto al sonno è quanto di più deleterio per il sonno stesso. Vediamo come possiamo modificare queste credenze iniziando a metterle costruttivamente in dubbio.
Con “Disturbo Narcisista di Personalità” si intende un disturbo di personalità la cui prevalenza (diffusione) nella popolazione generale è di circa l’1%. Con questo si intende che fatto cento il numero dei tuoi partner attuali e passati, uno di questi probabilmente era affetto da detto disturbo: quindi, o sei stat* sessualmente molto prolific*, oppure semplicemente molto sfortunat*.
Ora, per consuetudine si usa identificare il Narcisista con il sesso maschile poiché pare che circa il 70-80% dei Narcisisti siano uomini.
Se mi è consentita una battuta, sono convinto che detta percentuale sia dovuta non tanto alla effettiva realtà delle cose, ma più semplicemente al fatto che la maggior parte dei diagnosti e delle persone che si interessano alla materia siano per l’appunto donne.
Resi edotti del fatto che la statistica ci infonda una certa dose di serenità circa il nostro attuale o futuro partner, andiamo ad affrontare il nocciolo del problema.
Quali effetti negativi può generare questo genere di narrazione tossica (adoro questo aggettivo!) che ci costringe a guardare al prossimo con occhio pieno di sospetto e preoccupazione tipicamente il nostro partner alla ricerca di ogni possibile segnale che siamo vittima di un Narcisista?
Spesso dico come battuta che “in qualche parte del mondo c’è qualcuno che va dicendo di avere avuto un partner narcisista, che sei tu”.
Se devo fare riferimento alla mia pratica clinica, questa boutade probabilmente non è così lontana dal vero. Non riesco a ricordare tutte le volte che un client* si è rivolto a me lamentando o di essere stato vittima di un narcisista, oppure di essere stato accusato di Narcisismo Patologico.
Non è questa una lamentela personale, dacché anche grazie a questa situazione mi pago le bollette.Tuttavia non posso che sollevare un accorato appello. Fatelo per voi stessi, per chi vi sta vicino e anche per chi cerca di darvi una mano come terapeuta: sforziamoci di essere un po’ più creativi!
Non vorrei dare un’impressione sbagliata, se ci capita un partner veramente “Narcisista” con tanto di pedigree, quest’ultimo ci farà vedere i sorci verdi. Vorrei qui soffermarmi su un altro punto: quali siano le conseguenze del “Narcisismo Tossico”, con ciò intendendo la summa della gran messe di pubblicazioni di dubbio valore le quali con piglio inutilmente drammatico, rischiano di instillare in noi risposte irragionevoli e in ultima analisi, dannose a noi stessi e agli altri. Del resto, si sa, nulla vende più della paura.
Vorrei concludere questa breve disamina con un appello accorato.
Riconosciamo serenamente che per contrastare il Narciso abusatore, si è forse abusato del povero Narciso: a volte lo abbiamo citato in giudizio per coprire le nostre mancanze, le nostre frustrazioni, le nostre incapacità, le nostre debolezze. Perché siamo umani. O semplicemente, perché abbiamo un discutibile gusto in fatto di uomini (e donne, seppure in netta minoranza).
Non sarebbe più giusto e sicuramente una migliore soluzione per tutti, imparare a prenderci le nostre responsabilità in quanto adulti? Che imparassimo a smetterla di accettare situazioni insostenibili e se le abbiamo accettate per troppo tempo, riconoscere di avere noi in primis sbagliato a farlo?
Non sarebbe l’ora di smetterla di pararsi dietro il ficus folium del sentimento accecante che ci ha impedito di vedere il mostro che si nascondeva dietro quella maschera?
Ebbene, se anche fosse un problema di vista, una visita ad un buon ottico dovrebbe risolvere il problema.
(*) L’autore non condivide nulla di quanto ha scritto ed anzi si scusa di averlo persino pensato.
Come del resto la masturbazione, ma copriremo (sic!) questo secondo argomento in un altro articolo per ovvie ragioni.
Così come ovvie sono le ragioni per cui, dopo diversi decenni finalmente la totalità degli psichiatri è concorde nel concludere che parlare da soli non sia in sé un sintomo di un disturbo mentale. Probabilmente pressoché la totalità degli psichiatri si saranno detti che anche loro parlano con sé stessi. Nemo insanis in patria.
Non è dato sapere se lo stesso meccanismo maieutico sia accaduto anche per la masturbazione, ma è altamente probabile.
Perché a chi non è successo di avere una vocina petulante nella testa che ci ripeteva frasi o domande che ci hanno fatto sentire deboli, inadatti, inadeguati o “sbagliati”?
Ma soprattutto, è ragionevole la nostra naturale tendenza a ritenere “giusta” l’opinione di questa vocina?
Abbiamo in programma una certa prova, sia essa un esame, un colloquio di lavoro, ecc. Sappiamo di avere alcuni requisiti in regola e di poterci sentire ragionevolmente sereni e fiduciosi. E tuttavia, quella maledetta vocina, invece di elencarci i nostri punti di forza, è sempre pronta a punzecchiarci con una pronta lista delle nostre presunte “debolezze” o “mancanze”.
Tendenzialmente lo fa la sera, oppure la notte. Ci lascia coricare nel letto in pace, puntare la sveglia. Magari ci piace leggere un libro prima di addormentarci, e la vocina zitta, tranquilla.
Attende serena che chiudiamo gli occhi, quando ormai aspettiamo soltanto che Morfeo faccia la sua parte. Ed è proprio allora che l’infingarda dà fiato alle sue trombe, portandosi via in un attimo tutte le nostre rassicuranti certezze.
Vorremmo zittirla, vero? Assolutamente sì. Proviamoci invano. Più cerchiamo di zittirla, più essa si fa tonante, fastidiosa, potente e seducente. Niente da fare, non si può zittirla.
E siccome tendiamo naturalmente a crederle, a considerare che in fondo ha ragione lei, finiamo per sfinirci in un’inutile guerra intestina.
Beh, le “soluzioni” sono tante quanto è sviluppata la nostra fantasia. E siccome nel mio lavoro mi capita spesso di imbattermi in questo genere di “problemi”, ho cercato di raggruppare un certo numero di soluzioni di comprovata efficacia che andrò ad elencare senza alcuna pretesa di completezza. Perché in effetti, ognuno di noi può inventare sistemi del tutto personali, così come variazioni sul tema.
Nel concreto, andiamo a vedere sommariamente alcune strategie che possono essere facilmente applicate al nostro dialogo interno. Le ho suddivise in tre categorie assolutamente opinabili, per rendere più semplice la comprensione. Esse sono:
Quello che dobbiamo sapere è che ognuna delle voci qui sopra rappresenta un livello di intervento a “profondità” crescente di intervento.
Possiamo infatti intervenire sugli aspetti “fisici”, acustici della voce per modificarne gli effetti e la relativa frequenza, oppure possiamo decidere di intervenire a livelli più “profondi” analizzando dapprima le componenti semantiche, cioè a livello del contenuto, fino a giungere a trasformare quella vocina in una sorta di “consulente personale” conoscendo e soprattutto apprezzandone le intenzioni positive.
Prima di intervenire in qualsiasi modo sulla nostra voce interiore, è utile conoscerla a fondo nelle sue caratteristiche, pertanto ci faremo una serie di domande del tipo:
Una domanda sorge spontanea: come faccio ad avere queste informazioni?
Piuttosto semplice. Basta ascoltare la voce. Forse non abbiamo mai pensato di ascoltarla per conoscerla, perché eravamo inutilmente troppo impegnati a cercare di zittirla (con l’ovvio risultato di intensificarla).
Qual è il suo tono di voce? Ci comanda di sentirci in un certo modo utilizzando espressioni del tipo “sei inadatto, non ce la puoi fare, quello che fai è sempre sbagliato”, ecc. utilizzando un tono di voce basso, serio, oppure è stridula, fastidiosa e pedante? Utilizza un volume basso, discreto oppure parla a voce alta?
E quanto è seducente la vocina che ci ricorda che in frigo è presente ancora quella fetta di torta al cioccolato che abbiamo deciso di conservare fino al giorno successivo.
Ora concentratevi sulla posizione nello spazio: proviene da vicino ad un orecchio in particolare, oppure è distante? Viene dal davanti o dal retro?
In ultimo, di chi è quella voce: riconoscete che è la vostra voce, oppure la voce di qualcuno che è stato anche solo brevemente una presenza significativa nella vostra vita?
Ma ora procediamo a vedere insieme una per una diverse tecniche di intervento facilmente realizzabili anche da casa, nell’intimità della propria testa.
In questo primo articolo offriremo pertanto alcune proposte per intervenire al primo livello, cioè quello relativo alla sola componente “acustica” della voce interna (Tono, Volume, Posizione nello Spazio).
Vedremo insieme come sarà semplice eseguire alcune trasformazioni che in svariati casi possono essere di per sé sufficienti.
Ora, quando dico “semplici” non intendo dire che ognuno di noi possa trovare facile eseguire consapevolmente queste trasformazioni. In alcuni casi può essere utile farsi guidare da qualcuno. Esattamente come apprendere a suonare uno strumento o a guidare un’automobile, avvalersi dell’aiuto di un’altra persona può essere una buona idea.
Mettetevi in un luogo tranquillo dove nessuno vi disturberà per alcuni minuti e chiudete gli occhi ed inspirate tre volte senza la precisa intenzione di rilassarvi più del necessario.
Non è infatti importante essere rilassati più del dovuto e se non siete persone per questo genere di cose ancora meglio, perché lo farete più velocemente, ma ricordatevi sempre di prendervi il vostro tempo.
Ora, con gli occhi chiusi immaginate di poter immaginare di vedere comparire in un punto qualsiasi della vostra mente una manopola per il controllo del volume.
Notare qual è la sua forma ed il suo colore renderà l’immagine più vivida e reale. Ora, immaginate di poter immaginare ancora una volta di muovere verso sinistra o verso destra la vostra manopola e di soffermarvi su come questo influisca sul volume della vocina.
Potreste trovare che lasciare la vocina ad un volume appena udibile sia preferibile allo spegnerla completamente. Se vi piace, potete prendervi ancora un attimo di tempo prima di riaprire gli occhi immaginando di fissare molto bene l’esperienza nella vostra mente.
Ora avete un comando di controllo del volume del dialogo interno al quale potrete ritornare a vostro piacimento ogni volta che troverete una buona idea farlo.
Se siete rimasti solo parzialmente soddisfatti, fatevi i complimenti perché questa è per voi l’occasione di provare uno strumento ulteriore e quindi di impadronirvi di quest’ulteriore tecnica.
Avete in mente un personaggio buffo dei cartoons per esempio, oppure un qualsiasi personaggio sia esso reale o di fantasia il cui modo di parlare vi fa sorridere?
Ecco, ora immaginate che la vostra vocina parli proprio come quel personaggio mentre vi dice che siete fondamentalmente inadatti o incapaci o destinati ad un sicuro, perpetuo e perfetto fallimento in tutte le cose della vostra vita.
Chiudete gli occhi e localizzate velocemente il pannello di controllo audio della vostra mente (se non lo avete ancora vi basterà immaginare di averlo comprato on line) e trovate il comando che permette di modificare il tipo di voce.
Questa volta potrebbe essere una leva graduata piuttosto che una manopola, oppure un pulsante, lasciate fare alla vostra immaginazione. Ora, ascoltate liberamente la vostra vocina che parla con la voce di Paperino e provate invano a sentirvi male, se ci riuscite. Sarà molto difficile, perché probabilmente vi verrà da ridere.
Ok, approdiamo infine a questa ulteriore possibilità che può facilmente addizionarsi alle tecniche precedenti. Perché nessuno ci impedisce di moltiplicare gli effetti abbassando il volume, cambiando il tono di voce ed alterando la posizione spaziale della voce stessa.
Prima di poter procedere è ovviamente importante riconoscere da dove essa provenga, in modo da poterla più facilmente “spostare”. Pertanto richiamiamo intenzionalmente quella vocina e sentiamo da dove ci parla.
Proviene da un lato piuttosto che dall’altro? Ci parla frontalmente oppure da dietro le spalle? Non è sempre facile localizzare esattamente la posizione, perché a volte abbiamo l’impressione che essa provenga semplicemente da dentro la testa, e qualcuno potrebbe facilmente ritenere che nei fatti sia proprio così.
Rimaniamo concentrati sull’obiettivo e immaginiamo di poter spostare quella fonte sonora. Alcune semplici metafore potrebbero essere d’aiuto.
Potremmo per esempio immaginare di spostare con la mano quella voce altrove, per esempio allontanandola da noi. Se vogliamo fare i poetici, possiamo immaginare di soffiarla via, come se fosse una foglia accartocciata o la sottile tela di un ragno.
Spesso il semplice spostamento da sinistra a destra (o viceversa) oppure dal davanti al dietro (o viceversa) è utile a modificare in modo sostanziale le emozioni che proviamo quando ascoltiamo quella voce.
Facciamo un breve riepilogo di quello che abbiamo appreso. Non sempre il nostro dialogo interno apparentemente ci è utile a raggiungere i nostri obiettivi.
Anzi, a volte sembra che si diverta a sabotarci e a condurci verso stati d’animo poco piacevoli da vivere. Inoltre, per qualche oscura ragione tendiamo sempre a considerare come “valide” le sue parole.
Sappiamo altresì che tentare di ignorarla così come cercare di zittirla sortisce un effetto paradosso.
Ma adesso, oltre a tutto ciò, conosciamo anche delle tecniche basilari per modificare quella voce in modo da renderla inoffensiva, docile e mansueta.
Se vi è piaciuto questo articolo, potete mettere un like e attendere la seconda parte, dove vedremo altre tecniche assai più potenti fino a trasformarla in un nostro alleato, così come noteremo che esattamente per qualsiasi altra ventura umana, la pratica migliora qualsiasi risultato.
Avete presente il tassista disonesto, quello che quando siamo in una città poco conosciuta per portarci da un luogo A ad un luogo B distanti tra loro magari solo un paio di chilometri prende ogni “allungatoia” al solo fine di lucrare alle nostre spalle? Oggi fortunatamente, è possibile ovviare a questo rischio utilizzando applicazioni come maps per controllare che il nostro caro tassista non ci porti inutilmente a spasso per la città, ma stia scegliendo un percorso ragionevolmente breve. Purtroppo non esiste un’app analoga per tutti i generi di percorsi, soprattutto quando questi non ci portano fisicamente da un luogo ad un altro. Spesso sentiamo utilizzare questa metafora linguistica in altri ambiti. Il “percorso” di studi ne è un esempio. Così esistono “percorsi” di crescita personale, “percorsi” di varia natura. E ci sono “percorsi” che percorrendoli non ci portano veramente da nessuna parte. In questo breve scritto pertanto vorrei focalizzarmi su un tipo particolare di “psicopompo”, parola che letteralmente significa colui che manda le anime da qualche parte. Lo psicopompo di oggi è lo psicoterapeuta, il quale ci invita a intraprendere un “percorso di psicoterapia” che egli definisce di cura senza specificare peraltro bene che cosa intenda con “cura” e soprattutto di chi o di che cosa egli si stia prendendo cura.
Una delle principali resistenze a farsi due chiacchiere con uno psicoterapeuta spesso è dovuta al timore, non sempre infondato, che per ottenere qualche “risultato” apprezzabile sia necessario calarsi anima e corpo in un lungo percorso dall’esito incerto, ma dal costo certamente salato. È immediato rendersi conto a questo punto che esiste un vero e proprio conflitto di interessi interamente a carico dello psicoterapeuta, il quale lucra in funzione del numero di sedute che riesce ad estorcerci. Esattamente come un meccanico ha l’interesse a convincerci cambiare più pezzi possibili nella nostra auto, allo stesso il terapeuta ha interesse a convincerci che ci siano molti “pezzi” guasti o danneggiati da riparare, di modo che egli possa tranquillamente pagare a fine mese il leasing della sua macchina nuova.
È indubbio che qualcosa deve accadere affinché noi si vada contro i nostri interessi e si accetti di sottoporsi ad esosi trattamenti che possono durare mesi ed anni inducendo cambiamenti a volte solo marginali se non addirittura vistosi peggioramenti. Se a cadenza settimanale ci troviamo con l’auto che non parte, ad un certo punto arriviamo alla logica conclusione che o dobbiamo cambiare auto, oppure dobbiamo cambiare meccanico. Alla medesima conclusione giungeremmo per qualsiasi professionista cui dovessimo rivolgerci per le più disparate ragioni. È ovvio considerare a questo punto che esistono professionisti più abili di altri a nascondere la loro incompetenza o la loro incapacità ad assistere il paziente nella ricerca di soluzioni che lo portino a stare meglio. Ora, mi risulta che pochi scritti abbiano analizzato le modalità usate dagli psicoterapeuti per “blindare” i loro “pazienti” e convincerli a continuare a pagarli per non ottenere alcun tipo di risultato. Lo scopo di questo testo è proprio quello di vederne brevemente alcune, senza ovviamente scendere in pedanti dettagli.
Lo psicoterapeuta che ci vuole tenere degli anni in terapia generalmente presenta un aspetto triste, compassato come di chi ha un morto fresco in casa. Emana tristezza dai vestiti, dai modi fare compassati. Sembra uno che posto di fronte al terribile compito di scegliere quali scarpe indossare prima di uscire di casa, si ritiri avvinto dagli eventi. Il luogo in cui ci accoglie è spesso dominato da colori scuri, toni di blu o grigio, pieno di oggetti e libri con la copertina rigida oppure spoglio, scarno. A volte cercherà relativamente di farci sentire a nostro agio, altre volte ci provocherà disagio intenzionalmente. Si adopererà per creare una distanza interpersonale abissale attraverso la prossemica e l’utilizzo di una insulsa immobilità. Se è il primo colloquio e pertanto siamo ancora relativamente sani di mente, sentiamo il desiderio di scappare a gambe levate. Ma noi sappiamo che per stare bene bisogna prima stare male (una delle presupposizioni che vedremo in seguito), quindi stringiamo i denti ed andiamo avanti.
Lo psicoterapeuta parla lentamente, come se ogni parola gli fosse estratta con delle pinze arroventate. Il tono è compassato, pompatamente serio oltre l’utile, segnala in ogni modo che questo è il tempo della sofferenza, per le mele c’è da aspettare. Quanto? Chissà. Utilizza un linguaggio grave, espressioni di difficile comprensione, oscure, parla di miti greci come se si trattasse di sua suocera. Tende a dare nomi a cose ed esperienze che le travisano completamente. Sta già imponendoci un suo linguaggio fatto di espressioni metaforiche di cui se non ne comprendiamo il senso è colpa nostra perché non capiamo il suo linguaggio: che poi è il linguaggio della Terapia di cui verremo illuminati solo in seguito. Evita accuratamente qualsiasi espressione umoristica, qualsiasi espressione che possa stemperare il clima che si va creando. Ogni tentativo da parte nostra di metterci a nostro agio per esempio con una battuta di spirito riceverà un’immediata reazione di velato disprezzo. Ci sentiamo giudicati a dismisura e possiamo leggere sul suo viso, per lo più immobile, la misura di quanto non apprezzi quello che stiamo dicendo. Ripete innumerevoli volte la parola “trauma” ed abusa persino del temine “abuso”. Ci invita a “restare con le nostre emozioni” e non mancano mai quintali di fazzoletti per asciugare le lacrime che in maniera velata ci inviterà a versare. Quando piangiamo è contento, perché la ritiene una prova della propria capacità di “ricongiungerci alle nostre emozioni”. Chapeau.
Sappiamo che uno dei problemi che affliggono le persone che affollano le nostre sale d’attesa (per i colleghi che ne hanno una) consiste nella loro abilità di concentrarsi sul problema, non sulla soluzione. Ed infatti la “ricerca delle cause del problema” è proprio uno dei trend topic di questo genere di terapeuta, il quale al contrario vede nella ricerca di una soluzione al problema una fuga dalla terapia. E per evitare questa fuga, tenderà in ogni modo di farci stare peggio con frasi del tipo: “Quindi oggi le sembra che vada meglio, vero? Ma lo sappiamo entrambi che non è realmente così. Mi parli delle difficoltà con sua moglie…”
Purtroppo esistono radicati pregiudizi tanto diffusi quanto assolutamente inverificabili, i quali ci informano che ogni problema umano ha radici in un lontano passato: peccato che il passato per definizione sia appunto passato e pertanto immodificabile. Non si cerca di risolvere o modificare alcunché, ma di comprendere, di capire le radici (sempre affondate nel lontano passato, ovvio) delle problematiche del presente. La ricerca è volta sempre al perché le cose siano andate in un certo modo, mai del “come fare per” modificare una data situazione. Questo non ci deve scoraggiare. Possiamo spendere anni della nostra vita a rievocare, ragionare, discutere del perché nostra mamma preferisse il figlio del nostro vicino di casa. Senza peraltro mai giungere ad alcuna conclusione definitiva.
La paura, lo sappiamo, è il carburante di ogni dittatura così come di ogni stato autoritario. Essa tende a permettere ai governanti di introdurre legislazioni assolutamente negative per i governati, ma col loro consenso (“sicurezza” docet). Non diversamente in psicoterapia, la paura di avere una “patologia”, un “disturbo” grave è quella che ci impedisce di cercare altre strade, altri percorsi. Ne viene da sé che più il nostro psicoterapeuta è abile a indurci nella credenza che siamo affetti da un disturbo che può essere risolto solo attraverso il suo aiuto è proprio quel circolo vizioso che permette allo psicoterapeuta in questione di passare in banca ad accendere il mutuo per l’acquisto della sua terza casa. Per semplificare, guardiamo alla tabella qui sotto:
Supposizione 1: | IL PROBLEMA È MOLTO GRAVE |
Tentata soluzione: | CICLO DI SEDUTE DI PSICOTERAPIA |
Risultato: | IL PROBLEMA PERSISTE |
Supposizione 2: | IL PROBLEMA PERSISTE PERCHÉ MOLTO GRAVE |
Tentata soluzione: | ULTERIORE CICLO DI SEDUTE DI PSICOTERAPIA |
(Ripetere ad libitum) |
Quella che viene qui a crearsi è una situazione paradossale per la quale ogni risultato terapeutico, soprattutto se avverso al cliente, viene interpretato come una ulteriore necessità di cura. Quindi se chiedo una consulenza per qualche lieve difficoltà ad uscire di casa e dopo sei mesi di psicoterapia mi trovo nella totale incapacità di intessere alcuna relazione sociale? Invece di riconoscere che la psicoterapia sta peggiorando la qualità della mia vita, finirò col credere che proprio questo peggioramento è la dimostrazione che ho bisogno di continuare il rapporto con lo psicoterapeuta.
Mentre un numero sempre crescente di terapeuti si rendono conto della pericolosità intrinseca all’uso delle categorie diagnostiche in psicoterapia con un gradevolissimo ritardo di una cinquantina d’anni (perché non dare un’occhiata qui), il nostro terapeuta intento a inchiodarci al suo studio per usarci come elemento di arredo pagante tenderà a sfruculiarci dando un nome altisonante a qualsiasi nostra più insignificante abitudine e mostrandocela come se fosse il peggiore male possibile.
Una buona parola detta dalla persona giusta al momento giusto ci può permettere di vedere le cose da un nuovo punto di vista. Quello che prima ci sembrava un ostacolo insormontabile, può improvvisamente assumere i contorni di qualcosa di più maneggevole. La realtà delle cose rimane invariata. Quello che cambia è la nostra interna rappresentazione della stessa, il valore che noi diamo a quel pezzo di realtà. Prendiamo una persona che si sente di umore particolarmente labile e chiediamole in tono di domanda, “da quanto tempo si è accorta di essere depressa?” Ecco all’opera lo psicoterapeuta che ha deciso di rifare il parquet di casa ed ha bisogno del nostro contributo economico per farlo.
Questo genere di psicoterapeuta vive del nostro malessere e se ne nutre in svariati sensi. Egli tenderà ad amplificare le nostre emozioni negative chiedendoci di parlarne in lungo e in largo. Ci dirà che proprio questo è un momento molto importante della psicoterapia e, vedendoci distrutti, finalmente si prodigherà in sorrisi o in altre forme di rinforzo sociale che magari abbiamo atteso da lui da molto tempo, perché in fin dei conti non cerchiamo che questo: la sua approvazione. Così facendo impariamo qual è il nostro ruolo nella coppia terapeutica: il ruolo di quello che soffre e che si piange addosso senza alcuna speranza di farcela, alla disperata ricerca di un conforto a pagamento. Tipicamente, dopo un’ora di seduta ci sentiamo a pezzi, stralunati, a volte disperati od arrabbiati. E stiamo pagando per questo.
Ci farà sentire una vittima: vittima delle situazioni, vittima del passato, di genitori incapaci, di un partner abusante, di una presunta patologia mentale. Nessuno si sognerebbe di indicare come responsabile di una data situazione la persona che è vittima di un abuso, esatto? Ora, la cibernetica ci insegna che ogni attore all’interno di una certa situazione è per una seppur minima parte responsabile di quella situazione e del suo mantenimento omeostatico. Responsabile, una bella parola ricordiamocelo. Se io sono responsabile di una certa situazione, significa che posso sempre e comunque alterarla attraverso la modifica del mio comportamento. Se rivesto il ruolo della vittima, per definizione posso fare poco o nulla. Sono profondamente irresponsabile, schiacciato dagli eventi/situazioni. Proprio questo atteggiamento serve al nostro simpatico terapeuta per tenerci lì a leccarci le ferite in terapia per mesi ed anni, senza mai arrivare ad un cambiamento sostanziale. Non è colpa tua se hai comprato un bidone di automobile che ti lascia a piedi un giorno sì e l’altro anche. Puoi soltanto cercare di adeguarti a questa situazione immutabile ed eventualmente analizzare i motivi che ti hanno portato a scegliere proprio quell’autovettura.
Scappiamo, diamocela a gambe levate. La letteratura sempre in modo più coerente e coeso dimostra che la psicoterapia per essere efficace ha bisogno di obiettivi chiari, condivisi e realizzabili, di rinforzi positivi, di ristrutturazioni che ci permettano di vedere la nostra realtà in modo più vivo e attivo, sentendoci maggiormente attori nel bene e nel male della nostra vita. Persone responsabili, cioè capaci di rispondere, non vittime di presunti costrutti quali “personalità disfunzionali”, patologie mentali et similia. Diventa sempre più chiaro che la psicoterapia per essere efficace deve essere breve, mentre la lunghezza della stessa si correla negativamente al benessere psico-fisico degli individui: cioè in parole semplici, più mattonelle di cotto compriamo al nostro terapeuta, più perderemo tempo e speranze di stare veramente bene. Inoltre la psicoterapia deve essere un processo creativo dove c’è spazio per la battuta, il motto di spirito, persino il divertimento. Perché anche il tempo speso in terapia è il nostro tempo. Non è un tempo a parte della nostra vita, ma è essa stessa “vita“.
Critica. Criticare. L’ho cercato sul vocabolario etimologico. Proviene dal greco antico κριτική, kritiké, che letteralmente significa “arte del giudicare”. Mentre giudicare proviene dal latino iudicare, derivazione di iudex, giudice.
Morti i greci ed i latini, arriva Kant che ci spiega con la sua “Critica della ragion pura” che le cose possono diventare anche più interessanti, quando in un trattato composto di soli sei tomi ci illustra come la totalità della vita mentale sia composta di un’unica attività: giudicare, attribuire un valore a tutte le “cose”, siano esterne come interne a noi stessi.
Il vocabolario Treccani riporta la seguente definizione del termine autostima:
“Considerazione che un individuo ha di sé stesso. L’autovalutazione che è alla base dell’autostima può manifestarsi come sopravvalutazione o come sottovalutazione a seconda della considerazione che ciascuno può avere di sé”.
Ci si sottovaluta, ovvero ci si sopravvaluta. E ci sono criteri oggettivi ai quali ancorare detta valutazione, pertanto è assolutamente immediato separare gli uni dagli altri. Tra l’altro, se qualcuno volesse farci caso, ai signori della Treccani è sfuggito un dettaglio.
Perché loro dicono, ci si sottovaluta, ovvero ci si sopravvaluta. Io dico che logicamente dovrebbero esistere anche i corretti estimatori di sé stessi, i quali né si sopravvalutano, né si sottovalutano. Si valutano il giusto, insomma. E anche qui, esistendo dei criteri oggettivi su cui siamo tutti d’accordo, non è certo un problema distinguere i giustoautostimisti dagli altri.
Ma quali sono i criteri oggettivi che ci permettono di misurare concretamente la nostra capacità di autostimarci? Ovviamente nessuno. Non esistono detti criteri, sfortunatamente e come al solito si naviga a vista. Secondo la ormai classica definizione di William James (1842-1910), l’autostima è il rapporto tra il sé ideale (ovvero come vorremmo essere) e il sé reale (ovvero come ci percepiamo attualmente).
Un’analogia potrebbe aiutare la comprensione. Se volessimo vendere una casa, possiamo chiedere ad un perito una stima dell’immobile. Detta stima varierà in base ad un numero variegato di fattori: grandezza dell’immobile, posizione geografica, caratteristiche del quartiere, qualità delle finiture interne, eccetera. Se noi volessimo vendere un castello pazzesco il quale tuttavia richiede una profonda ristrutturazione, la stima del valore del nostro castello sarebbe assai inferiore al valore che potrebbe raggiungere una volta ristrutturato.
Potremmo dire quindi che questa differenza è espressione dei costi da sostenere per la sua ristrutturazione, ovvero la differenza tra il castello allo stato attuale ed il castello totalmente ammodernato. Se la stima del perito ci sembra troppo bassa, ovviamente possiamo sempre chiedere un secondo parere, poi un terzo e così via, ben consapevoli che il mercato saprà criticare le nostre scelte premiandoci con una vendita veloce oppure tenendoci in stallo per molti mesi. Con l’autostima le cose non funzionano molto diversamente, solo che in questo caso venditore, acquirente e perito sono la stessa persona.
Per uscire velocemente dalla questione senza appesantirci in inutili quanto pedanti considerazioni, ci si potrebbe limitare a dire: se mi sento bene con me stesso, allora ho un’alta autostima. Viceversa, se non mi sento bene con me stesso allora ho una bassa stima di sé. A suffragio di questa semplificazione, gli psicologi ci dicono che per rimanere in uno stato di benessere è buona cosa avere un pregiudizio leggermente positivo verso sé stessi.
Cioè, in pratica, vedersi un po’ meglio di quanto si è in “realtà”. Molto rumore per nulla, quindi. Se non fosse che negli ultimi decenni per un motivo o per l’altro abbiamo assistito ad un aumento vertiginoso delle richieste di “cura” per l’autostima, di corsi per “migliorare” l’autostima, eccetera.
Sembra quasi che tutti debbano migliorare in autostima, come se il problema fosse quello di non “vedersi” abbastanza bene: meglio, di volersi a tutti i costi vedere meglio di quanto si è. Una sorta di “filtro bellezza” esistenziale.
Ricordate la definizione della Treccani di stima di sé? Le persone possono “sovrastimarsi” o “sottostimarsi” (mai “giustostimarsi”). Ora, è evidente che ci troviamo di fronte ad un paradosso logico piuttosto interessante. Un paradosso che rende sostanzialmente tutto il boogaboo sull’autostima una cialtronata pazzesca.
Ma arriviamoci con calma.
Come si è già detto, non esistono criteri oggettivi per stabilire se la propria autodiagnosi sia corretta oppure viziata da un autopregiudizio positivo oppure negativo. Non esistendo detti criteri oggettivi quindi osservabili è ragionevole dedurne che qualsiasi stima circa l’autostima sia vincolata ad un giudizio puramente soggettivo, quindi vincolata a sua volta dalla propria capacità di autostimare l’autostima. Le cose si complicano.
Dare la parola all’esperto. Un esperto, in quanto terzo, saprà certamente valutare la nostra capacità di valutare la valutazione di noi stessi. Giusto? Ma nel momento in cui riconosciamo che non esistono criteri oggettivi esterni, misurabili, attendibili ed affidabili, il problema si sposta semplicemente di livello aggiungendo la complicazione di dover stimare la capacità dell’esperto di stimare la capacità di stimare l’autostima di un’altra persona… In pratica, se volessimo affidarci alla razionalità, non c’è alcuna via di uscita. Il nostro benessere, se non altro quello mentale, si allontana.
Per fortuna gli esseri umani logicamente compiono operazioni del tutto illogiche e irrazionali, ma assai ragionevoli al fine di semplificare e ammantare di senso il loro mondo, provare un certo benessere e sentirsi molto intelligenti nel farlo.
Quindi prendiamo per buona la logica illogicità di far finta di credere che un’altra persona sia maggiormente al corrente di fatti che non sono fatti, ma per l’appunto opinioni. Opinioni di altri sulle opinioni che noi abbiamo su noi stessi. Ca van sa dire, una cialtronata pazzesca che tuttavia ha il pregio di permetterci di tornare a dormire i tranquilli sonni della ragione in tempi piuttosto ragionevoli, peraltro. Beneesere allo stato puro.
Perché concentrarci sul problema dell’autostima ci impedisce di comprenderne il suo elevato valore adattivo. Voglio dire, problematizzare l’autostima in termini di mancanza da colmare o di eccesso da regolare ci permette di prendercela col termometro invece che con l’influenza che causa la febbre, la quale ricordiamocelo, è una reazione sana ed adattiva dell’organismo.
Riflettiamoci un attimo. Ritorniamo al nostro caro William James:
AUTOSTIMA = SÉ REALE / SÉ IDEALE
Ne ricaviamo intuitivamente che per avere una buona autostima ci sono due strade maestre, di cui una comporta un ridimensionamento del sé ideale, mentre l’altra comporta un miglioramento della percezione del sé reale. Viviamo in una realtà che ci dice che dobbiamo amarci ad ogni costo. Dobbiamo piacerci e basta, indipendentemente da chi siamo, da come ci comportiamo, perché noi siamo la cosa più importante di questo mondo.
Interessante presupposizione, quella che dobbiamo amare noi stessi.
Io dico che non è così. Perché mai dovremmo amarci ad ogni costo? E soprattutto, perché questo dictat produce un paradosso logico che al fin della fiera produce risultati paradossali per cui nel nostro sforzo di amarci ci troviamo sempre più insopportabili?
Semplice. Perché a nessuno piace che gli venga detto cosa fare. Soprattutto perché amare è qualcosa che, si è sempre detto a torto o a ragione, deve accadere spontaneamente, non come frutto di una deliberazione cosciente.
Lo amo perché devo amarlo sa molto di matrimonio old style. Ma il vincolo del matrimonio con un’altra persona può essere sciolto dalle competenti autorità. Qui, si parla di una persona che deve amare sé stessa: quali autorità competenti possono sciogliere il vincolo che ci lega a noi stessi?
Una bella gatta da pelare, non c’è che dire. Ma siccome per definizione il problema non è un problema se non può essere risolto, allora ecco una possibile strategia per una risoluzione dello stesso.
Sì, esatto. Volemose bene senza il problema di doverci amare per forza. Stiamoci simpatici, magari. Come in molte altre cose, ogni tanto mandarsi a quel paese può aiutare (credit: Alberto Sordi).
Trattiamoci con un po’ di riguardo, ma ricordiamoci che in fin dei conti non è che siamo tutta questa gran cosa, noi esseri umani. Persino il Papa, quando muore, viene sostituito da un altro Papa soggiogato al medesimo destino.
Pertanto, diminuiamo l’utilizzo sconsiderato del “filtro bellezza” ricordandoci che prima o poi se hai le rughe o la pancetta qualcuno le noterà. Che Dorian Gray è uscito dalla penna di Oscar Wilde e migliorando le foto non miglioriamo certo noi stessi, ma al contrario ci confrontiamo con uno standard inarrivabile.
E magari a volte che ci baleni in mente la possibilità di permetterci un tale eccesso di hubrys da sentirci bene anche mostrando con coraggio noi stessi in vesti meno attraenti forse, ma più personali.
Vi siete mai chiesti per quale motivo siamo tutti attratti istintivamente dalle cattive notizie, ovvero per quale motivo tendiamo a privilegiare e a considerare più valide le informazioni che veicolano rappresentazioni negative del mondo e/o di noi stessi?
Perché le notizie negative tendono ad essere percepite come più importanti, più informative, più affidabili, ovvero “più vere”?
In particolare l’euristica definita della “cattiva notizia”. Ora, perché la nostra testa dovrebbe giocarci uno scherzo del genere costringendoci a guardare al mondo e alle cose del mondo con un occhio di preventivo sospetto?
Avete mai sentito il proverbio chi non pensa prima sospira poi? O ancora, meglio sbagliare per eccesso che per difetto? Ed ancora, pensa al meglio e preparati al peggio?
Sappiamo che i proverbi non sono semplici proverbi. I proverbi infatti incarnano a parole questa cosa di difficile definizione che noi indichiamo con il termine vago e controverso di “cultura”.
E la cultura di una popolazione, in una certa parte e tra le altre cose si potrebbe considerare formata da un corpus di assunzioni non verificabili e non verificate (cioè franchi ed onesti pregiudizi) circa il funzionamento delle cose del mondo.
Un insieme di soluzioni ai problemi ed un prontuario di risposte già cotte e mangiate per quando l’individuo non ha tempo di riflettere su come rispondere al meglio alle cose inaspettate che complessivamente hanno mostrato di essere utili, cioè efficaci nel salvaguardare il benessere della comunità.
Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, non si sa mai.
Maslow, “impiramidando” (sic!) una serie di supposti bisogni dell’essere umano ha certamente fatto bene ad immaginare che alla base della piramide quindi a fondamento degli altri, siano i bisogni di sicurezza.
Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova. Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.
Non si sa mai quello che al mondo ti può capitar, cantavano Cochi e Renato.
Immaginare che il mondo sia un luogo ostile e pericoloso pertanto ha permesso alle persone di non fare il passo più lungo della gamba, cioè di non esporsi ad inutili rischi. Primum non nocere, Ippocrate.
So much for now. Esiste una lingua di terra che ha perfezionato un modello linguistico meraviglioso che rappresenta una perfetta sintesi di prudenza, timore ed ansia per il futuro, che può condurre fino alla completa paralisi dell’iniziativa personale e collettiva attraverso modalità del tutto ragionevoli all’apparenza.
Ora, maniman è un’espressione così dolce all’apparenza, quasi un francesismo fortunatamente intraducibile in italiano se non attraverso una perifrasi del tipo “potrebbe accadere che” oppure “non si sa mai”.
Ma poiché mille parole non avranno mai la potenza di un esempio, eccone uno. Esco, mi porto l’ombrello perché maniman (non si sa mai) piove. Giustamente, potrebbe piovere, non ci sono dubbi. E fini qui le analogie con la legge di Murphy tiene: “se può piovere, sicuramente pioverà. Robetta da principianti, per l’appunto.
Perché erroneamente qualcuno potrebbe pensare che il maniman sia un semplice principio di prudenza relativamente innocuo? Perché quello che sfugge all’osservatore distratto è la proterva tendenza del maniman ad autoriprodursi, in quanto esso è facilmente applicabile a sé stesso e pertanto può produrre regressioni potenzialmente infinite che conducono ad un dedalo di infinite possibilità la cui sola soluzione è quella della completa paralisi mentale, motoria e d’iniziativa.
Esco con l’ombrello perché maniman piove. Maniman (non si sa mai) potrebbe non piovere, quindi non porto l’ombrello. Però se maniman dovesse piovere e sono senza ombrello? Maniman lo porto con me. E se maniman non piove e sono l’unico con l’ombrello in mano? Maniman oggi resto a casa, uscirò domani o forse il mese prossimo dopo aver consultato le previsioni del tempo: che, maniman, non sempre sono attendibili.
Sembra che il nostro eroe sia destinato ad un pomeriggio casalingo al riparo da possibili intemperie come dalla possibilità di perdere l’ombrello per strada (maniman!).
Egli tuttavia scegliendo liberamente di rimanere a casa (come liberamente Kunta Kinte decide di non provare più a scappare dalla piantagione dopo che gli hanno amputato le dita del piede destro), vive nell’illusione di aver fatto la scelta più sicura, la scelta che lo mette al riparo non solo dalle intemperie, ma anche dalle atrocità derivanti dall’incertezza, vero nemico dell’essere umano.
Tuttavia, a ben guardare la sua condizione di ritrovata sicurezza pagata con lo scotto di una piccola rinuncia è sicura solo in apparenza.
Perché l’Homo Maniman potrebbe non accontentarsi di stare seduto sul divano a scrutare il cielo; egli potrebbe mettere in dubbio sé stesso e le sue stesse strategie sicuritarie: e se dopo maniman mi pento di non essere uscito di casa? Applausi.
Come si può facilmente intuire, il semplice spostamento del focus del problema traghetterà questo povero non così ipotetico tapino ad altri livelli di indicibile incertezza in cui il fallimento nella semplice accettazione che il mondo è imprevedibile nella sua complessità, lo trascinerà inevitabilmente in un abisso di insicurezze e paure.
Esagerato, certamente. Qui ho cercato solamente di delineare per sommi capi un modello sconosciuto ai più capace di trasformare un qualsivoglia individuo potenzialmente in grado di realizzarsi e di essere ragionevolmente contento di non essere ancora defunto, in una larva umana deprivata di ogni speranza, totalmente atterrito dalle infinite fonti di incertezza da cui si sente giustamente assediato.
Del resto, come nessuno pretende che ogni sportivo della domenica diventi un campione olimpico, allo stesso modo siamo tutti liberi di praticare l’arte del maniman in maniera amatoriale, per curiosità o per passione momentanea, magari anche solo per distrarci dai soliti triti e ritriti giochi mentali che utilizziamo ogni giorno per renderci la vita una sgradevolissima e stancante corsa ad ostacoli senza fine.
Per una trattazione più completa dell’argomento si rimanda a P. Watzlavick, Istruzioni per rendersi infelici. Mentre qui trovate una breve recensione del libro.
Per esempio. Sei impegnato/a da tempo nell’applicazione dell’ormai collaudatissimo schema del “Se mi ami, allora devi fare X” ottimo modello evergreen sempre capace di trasformare qualsiasi relazione, soprattutto se pericolosamente soddisfacente, in un inferno in tempi assai brevi e quindi vorresti provare qualcosa di diverso.
Giusto per non annoiarti e per sembrare creativo/a. Hai iniziato con richieste più o meno ecologicamente (cfr. G. Bateson) sostenibili ed ormai ti sei anche abbastanza stufato/a di vedere quel poveraccio/a che si arrabatta per sostenere ogni tuo insensato capriccio e voluttà e ritieni che sia l’ora di assestargli/le il colpo di grazia. Proviamo con un esempio.
“Ok, oggi dici di amarmi, maniman. E maniman domani potresti non amarmi più. Quindi? Cosa hai da dire a tua discolpa?”
Ora lasciamo che questa lacerante possibilità, peraltro sempre presente in qualsiasi tipo di relazione amorosa faccia il suo lavoro.
Come la goccia buca la pietra, allo stesso modo la reiterata applicazione del maniman sarà perfettamente in grado di rendere anche il più baldanzoso degli amanti un insulso coacervo di sensi di colpa, incertezze, nevrosi ossessive, fino a condurlo/a alla più totale mancanza di iniziativa, alla più completa atarassia.
A quel punto, giocoforza sarà assai più semplice convincervi in buona fede che avevate ragione nel dubitare in primo luogo del suo amore. Maniman.
Certo, si può obiettare che nessuna persona si comporterebbe in maniera così stupida da allontanare volontariamente qualcuno a sé caro: il buon senso ci insegna che quando si vuole bene ad una persona si è intenzionati a mantenerla presso di sé, giusto?
Ma noi possiamo fare di meglio che lasciarci prendere dallo sconforto del senso comune, il quale a ben vedere non è mai servito a null’altro se non proprio ad esacerbare questo genere di situazioni.
Così come generalmente già fanno i consigli degli amici e delle persone che in totale buona fede cercano di aiutarci ad uscire dall’impasse che con tanta fatica ed impegno noi stessi abbiamo creato.
Per semplificare il modello logico-deduttivo, ecco qui uno schema immediatamente comprensibile:
SE X MANIMAN Y; SE NON-X MANIMAN Z
dove Y e Z sono entrambe condizioni/situazioni sfavorevoli al soggetto.
Tertium non datur, non c’è via di uscita se non l’apatia, la perdita d’iniziativa, la paralisi, la compromissione dei rapporti interpersonali, del funzionamento sociale e lavorativo, etc.
A ben vedere, è facile rintracciare in questo modello di funzionamento qualcosa di analogo ad una forma di doppio legame situazionale, nel quale per evitare le conseguenze negative di una certa scelta si opta per la non-scelta, la quale a sua volta è valutata nelle sue possibili conseguenze negative.
L’unica via di uscita apparente sarebbe composta da un salto logico, dalla ricomposizione di una cornice mentale nella quale siano previste altre possibilità: le quali a loro volta facilmente potranno essere valutate solamente alla luce delle loro possibili conseguenze negative. Il meccanismo può ripetersi ad libitum.
La paralisi dell’iniziativa del soggetto giunge come un salvifico balsamo, quasi inevitabile. Balsamo salvifico fino a quando anche della detta paralisi non vengano valutate le possibili conseguenze negative, in meccanismo regressivo potenzialmente senza fine.
In conclusione? Maniman, è d’uopo una conclusione. E poiché viviamo in tempi in cui cerchiamo di vaccinarci da qualsiasi fonte di pericolo possibile perché maniman non si sa mai, poiché vogliamo vivere vite all’insegna della sicurezza, non ci rimane che fare tesoro della lezione del maniman.
Perché basta veramente poco per renderci conto che siamo tutti un po’ maniman (soprattutto i liguri).
Il mondo è pieno di nemici visibili ed invisibili e recentemente abbiamo imparato come persino il respiro nasconda delle insidie.
Smettere di respirare sarebbe ovviamente la migliore delle opzioni possibili, ma come possiamo immaginare detta scelta potrebbe comportare delle conseguenze spiacevoli: perché se dopo maniman me ne dovessi pentire?
Avvertenza per il lettore. Il post che segue è stato scritto da un professionista della salute mentale che si trova ogni giorno a fronteggiare sfide di crescente difficoltà, sia sul piano professionale che personale e nel farlo, mette cuore (tanto) e intelligenza (quella che c’è): non è mia intenzione banalizzare né ridicolizzare la sofferenza umana in qualsiasi forma essa si presenti. Vorrei tuttavia ricordare che nell’immortale capolavoro di Umberto Eco “Il nome della Rosa” la Biblioteca, arcigno deposito posto a guardiano di tutta la saggezza della cristianità, brucia fino alle proprie fondamenta perché un vecchio monaco vuole impedire che qualcuno legga e diffonda il secondo libro della Poetica di Aristotele: un libro che parla della commedia e del riso.
* * * * *
C’è vita dopo il Covid? Ovvero, che vita ci aspetta tra qualche mese? Ce lo chiediamo tutti e tutti ci rispondiamo con parole di coraggio a volte, cerchiamo di nascondere le nostre paure. Ci sono cose che non ammetteremmo mai agli altri, altre cose che non vogliamo ammettere neanche a noi stessi. Abbiamo cantato sui terrazzi, o almeno, avremmo voluto farlo. Nei primi giorni dei ripetuti flash mob alcuni di noi hanno ballato, cantato, suonato canzoni ed inni. Alcuni ci hanno creduto, altri lo hanno fatto per conformismo, altri ancora forse, per sentirsi meno soli. Poi ci siamo lentamente abituati alla prospettiva di fare a meno di molte cose e di molti rituali che hanno composto la nostra quotidianità e del cui valore ci eravamo forse dimenticati. Abbiamo imparato a salutare senza abbracciarci e a volte ci siamo tenuti stretti in lunghi sguardi. Abbiamo imparato a smaterializzare le relazioni accorciando le distanze attraverso uno schermo. Siamo stati forti e coraggiosi quando c’era da incoraggiare e talvolta ci siamo scoperti fragili e indifesi. Con forza abbiamo rifiutato la naturale inclinazione a vedere nell’altro un nemico, un aggressore, un potenziale agente patogeno semovente, riconoscendo dietro la mascherina lo stesso stanco sguardo che ritroviamo la sera di fronte allo specchio. Abbiamo visto le nostre finanze restringersi fino a quasi scomparire, ci siamo trovati con il portafoglio in lockdown, mentre prendevamo l’ennesimo caffè dalla macchinetta self service. Ora che guardiamo al dopo Covid preparandoci mentalmente e spiritualmente per un’eventuale ritorno dello stesso durante la stagione invernale, viviamo i tempi di una narrazione omogenea, quasi intubata per quanto standardizzata, secondo la quale ci aspettano tempi in cui i legittimati timori, le ansie e le paure debbano quasi magicamente trasformarsi in quadri psicopatologici per affrontare i quali, ci viene detto, è pronta una pletora di specialisti pronti a garantirci che esiste una luce in fondo al tunnel a pagamento, ovvio.
LA PAROLA DEGLI ESPERTI
Lessi qualche tempo fa di un famoso psichiatra americano di cui mi sfugge il nome, ma sicuramente famoso ed importante perché ha studiato ad Harvard. Egli sosteneva senza mezzi termini come la pandemia da Covid e le sucessive vicissitudini rappresenteranno un trauma profondamente insanabile capace di colpire tutti, senza esclusione di colpi. Il ché mi ha colpito. Non il trauma, s’intende, ma la categoricità e la sicumericità (sic!) di dette parole: possibile che neanche una ridotta minoranza di esseri umani possa avere le capacità e le risorse necessarie a superare questo momento senza finire, magari fra qualche anno, a dover parlare della mamma sdraiato su un lettino di finta pelle?
E poi la fiumana incessante, battente come la pioggia di novembre di consigli di illustri sconosciuti (sempre carissimi colleghi, s’intende) i quali si affrettavano ad affettare suggerimenti di vita per affrontare al meglio la quarantena. Perle di saggezza, straordinari contributi di bellezza che mi hanno permesso veramente di guardare al futuro con rinnovato entusiasmo. Mi permetto di suggerire una grossolana suddivisione di detti consigli in tre categorie che non hanno nessuna pretesa di esaustività, ovviamente.
“Prenditi cura di te. Del tuo corpo, dei tuoi vestiti: tirali fuori e rimettili nell’armadio. Così, senza un senso, tanto per fare qualcosa. Devi occupare il tempo con delle cose. Le cose. Se devi andare in cucina, vacci coi tacchi. Riordina le cose di casa, ma prenditi il tempo di occuparti di cose che ti piacciono. Fai cose che ti piacciono. Capito? Fai cose. Cose così. Da piccola suonavi il piano come una capra potrebbe suonare la fisarmonica, ma ti sentivi l’orgoglio di mamma e papà? Ricomincia subito! Riscopri la dolcezza delle urla dei tuoi vicini che non sentivi da troppo tempo. Oppure forse esercitavi i tuoi straordinari talenti nelle arti pittoriche? Ricomincia subito. Ci sarà pure una ragione se hai smesso, ma tu non te ne curare.”
“Questo può essere un periodo di grande crescita spirituale. Non hai mai letto un libro in vita tua, quindi ora è il momento di farlo. Preferibile che tu legga libri molto pesanti e voluminosi, non so il perché, ma pare che sia meglio così. Pratica Asatanakanapranayamanafava yoga. Per incominciare la posizione dell’Albero va benissimo (tanto dove credi di andare), qui ed ora metti le tue radici. Qui. Lì. No, un po’ più a destra. A seguire, saluto al sole. Medita. Fai un bagno di gong. All’inizio è scomodo entrare nella vasca con tutti quegli arnesi di metallo, ma è solo questione di abitudine. Accogli la noia ed il tedio come il Bene Assoluto dell’universo. Saluto al sole. Non ti stai rompendo le scatole, stai entrando in contatto con il tuo respiro (sole). Se vivi in un bilocale in otto, sarà per te l’occasione di comprendere profondamente il significato della profonda esigenza dello Spirito umano di Spazio Vitale (sole). Se vivi in un bilocale da solo, sarà per te l’occasione di comprendere quanto è importante la Connessione Astrale che unisce tute le persone da qualche parte in qualche tempo e per qualche motivo che mi sfugge (sole). E poi, hai già notato i cardellini che si accoppiano sulla grondaia (loro possono farlo salutando il sole). La Natura si riprende i suoi spazi. Il mondo sarà un luogo più bello e più vivibile. Dopo. Saluta il sole. Piove.”
“So cosa stai provando. Ti girano le palle. Sì, ti girano le palle. Non nascondere le tue emozioni, ma comunicale. Comunicale, con calma, ma comunicale. Hai capito? Comunicale. Comunica sempre le emozioni, come ti senti, cosa provi in ogni istante del giorno, sempre e ripetutamente, comunica tutto, comunica anche l’incomunicabile attraverso gesti e pantomime. Normale che detesti la tua compagna o il tuo compagno, ci stai tutto il giorno azzeccato. Se te lo potessi dire, ti direi di usare buone parole e buoni modi, ma che buone parole e buoni modi allungate con un paio di ceffoni rendono sicuramente la comunicazione più efficace, ma purtroppo non te lo posso dire e allora ti dico di essere assertivo. Sii assertivo. Hai capito? Sii assertivo. Perché non devi fare le cose perché te lo dicono gli altri, devi farle perché tu vuoi farle.”
Ammetto che spesso leggendo questi consigli degli psicologi su come affrontare al meglio la quarantena ho sempre tratto una leggera impressione di assoluta banalità, una pletora di luoghi comuni che manco mia nonna, qualcosa tipo I discovered hot water, ma questo certamente è dovuto ad un mio preciso senso di sfiducia verso la categoria per appartenere alla quale ho anche dovuto studiare parecchio (ogni commento è superfluo).
PERTANTO?
Siccome sappiamo che criticare l’operato degli altri è sempre più semplice che non proporre qualcosa di alternativo, ecco che nel mio piccolo vorrei dare un modesto contributo ad analizzare la situazione che si va creando da un punto di vista leggermente diverso. Sappiamo tutto di come la qualità delle nostre vite sia invariabilmente peggiorata in questi mesi e di come l’outlook che ci aspetta si prospetti persino più miserabile. Stiamo tutti imparando ad accettare l’idea che prima o poi finiremo in terapia a parlare della nostra infanzia per via di questa pandemia. Ma che dire di coloro i quali sono già da tempo ufficialmente svitati? Come se la passano quelle persone che in tutta onestà sono approdate alla quarantena come portatrici di una sana ed onesta diagnosi di disturbo mentale? Quelli che per dirla in altre parole non salgono sul carro dei vincitori delle malattie mentali all’ultimo miglio, quando ormai è chiaro come andranno a finire le cose, ma coloro i quali con spirito di abnegazione già da molto tempo affollano le sale d’aspetto dei cosiddetti specialisti (the specialists) permettendo a questi ultimi di compilare felicemente la loro denuncia dei redditi anno dopo anno? Il senso comune ci porterebbe giocoforza a immaginare che persone già fragili prima della pandemia non possano che viverne gli effetti sulla pelle con esacerbato dolore. Ma siamo sicuri che debba essere così? A questo proposito vorrei condividere con il lettore alcune esperienze dirette ed indirette delle quali sono venuto a conoscenza nel corso delle ultime settimane. Storie ai margini di una narrazione collettiva, ma pur sempre degne di essere ascoltate e condivise per il loro piccolo contenuto di verità, per quel piccolo pezzo di storia che portano con sé. Ma come sempre, è importante procedere con ordine. E l’ordine, in questo caso ce lo fornisce direttamente il tanto amato DSM (Diagnostic and Statistic Manual, APA), la Bibbia degli psichiatri americani (quindi anche di quelli nostrani) che ci spiega quali problemi abbiamo, ma nulla dice dei tanti problemi di cui soffre chi lo ha scritto. E non a caso. Quindi vediamo quali possano essere gli effetti della pandemia di Coronavirus su una serie di cosiddetti “disturbi mentali”.
Uno degli aspetti più deprimenti nella vita del depresso di cui non si fa spesso menzione è rappresentato dall’insano quanto fallimentare tentativo della società civile di convincerlo che la vita, il mondo, l’universo intero non sia una totalità oscura e minacciosa; che l’avvenire possa presentare sì delle difficoltà, ma che in fin dei conti è opportuno guardare al futuro con speranza e fiducia. La speranza che questo esercizio, fatto in buona fede e con l’ovvia speranza che in qualche modo le solite parole ripetute per l’ennesima volta possano sortire miracolosamente un effetto nuovo, parossistico e sconvolgente, purtroppo è generalmente destinata a rimanere frustrata: difficilmente abbiamo assistito a persone che, definite depresse, di fronte all’ennesimo “dai, vedrai che domani sarà un giorno migliore, vedrai” si siano risolte ad urlare, gli occhi rivolti al cielo finalmente carchi di lacrime sì, ma di gioia, “Grazie alle tue parole, ora sì finalmente vedo che domani sarà un giorno migliore, vedrai.”
Inspiegabilmente, è più probabile che vedremo il nostro caro depresso incupirsi ancora di più, gli occhi spenti, le labbra ricurve verso il basso, mentre ci saluta per liberarsi dell’ennesimo rompiscatole “ottimista”, quindi incapace di vedere la realtà per quello che essa realmente è. Infatti spesso il depresso è convinto di vedere meglio degli altri la “vera” natura delle cose del mondo. Mentre da un lato denigra sé stesso esacerbando le proprie presunte mancanze e ridicolizzando le sue rimanenti risorse, spesso egli si avverte “superiore” nel suo percepirsi “inferiore”, quasi una sorta di involontario eroe tragicomico. Tragico, perché si sente consapevole a differenza degli altri di essere consegnato ad un destino senza speranza contro il quale combatte da vinto giorno dopo giorno; comico, perché in realtà unico e solo artefice (in)consapevole del proprio dramma esistenziale. Con l’arrivo della pandemia improvvisamente le cose cambiano. Il mondo si sente ammalato, interamente o quasi. Attorno al nostro caro depresso le cose cambiano. Per così dire, ogni giorno sempre più persone smettono di criticare silenziosamente la visione del mondo di quel “gran rompiscatole, ok sì che è malato però rimane un gran rompiscatole menagramo” ed iniziano ad abbracciare il depression-mode. E pertanto il nostro profeta di sventure può iniziare a sentirsi meno solo, finalmente compreso dal mondo intero che scivola esattamente nell’abisso da lui pronosticato e bandito inutilmente a tutti i suoi conoscenti. Forse il mondo potrà aprirsi ai suoi piedi come una crisalide in adorante adulazione del suo genio incompreso, del suo essere visionario e maledetto in un tripudio di bandiere e di baccanali tenuti in suo onore. Forse tutta quella sofferenza è servita a qualcosa, finalmente!
O forse no.
Oppure no. Forse no. Egli potrebbe esserne disturbato: come un predicatore che ha predicato al deserto per anni, ora vede di mal occhio quel florilegio di teorie complottiste per le quali è stato denigrato per tanto tempo. Ora che il mondo riflette la sua immagine cupa, sordida, selvaggia e catastrofica, il depresso si sente meno solo d’accordo, meno incompreso, ma proprio per questo motivo egli avverte il pericolo di perdere la sua specifica unicità di predicatore solitario, quasi un Cristo destinato forse a salvare l’umanità attraverso i suoi ammonimenti (che devono rimanere inascoltati, ovvio: nemo profeta in patria). Quindi il depresso sempre meno depresso e sempre più disturbato dal comportamento irrazionale dei suoi simili non sa davvero più che pensare. La sua logica di funzionamento prevede un mondo in cui egli vede per gli altri e non per sé la possibilità di un godimento terreno a lui inaccessibile. Ora che questa logica vacilla, ora che detto godimento viene a tutti negato, egli è costretto a stabilire nuovi rapporti con la realtà, nuove chiavi di lettura per riuscire a rendersi la vita più impossibile che agli altri. Una missione non facile e non priva di rischi: come quello di trovarsi, con sua grande sorpresa e stupore, a pronunciare parole come “dai, domani sarà un giorno migliore, vedrai” chinato sopra le spalle abbattute di un suo simile. Similia similibus curantur.
* * * * *
Eccoci giunti alla fine di questo nostro breve viaggio. Chi scrive spera che il lettore abbia trovato modo di sorridere e forse anche di riconoscersi a volte, come capita quando ci guardiamo nei frammenti di uno specchio in frantumi. Spesso capita di vedere in giro l’espressione andrà tutto bene, e credo che il generale intendimento di questa espressione sia quello che tutto tornerà come prima. Non illudiamoci, non tornerà tutto come prima e a ben vedere, neanche dovremmo sperare che accada. E di converso sì, ne sono sicuro. Andrà tutto bene. Ed andrà tutto bene nella misura in cui per ciascuno di noi, nel proprio insignificante pezzetto di universo sul quale possiede una certa influenza, non tornerà tutto come prima.Da un essere umano, cosa ci si può attendere? Lo si colmi di tutti i beni di questo mondo, lo si sprofondi fino alla radice dei capelli nella felicità, e anche oltre, fin sopra la testa, tanto che alla superficie della felicità salgano solo bollicine, come sul pelo dell’acqua; gli si dia da vivere, al punto che non gli rimanga altro da fare che dormire, divorare dolci e pensare alla sopravvivenza dell’umanità; ebbene, in questo stesso istante, proprio lo stesso essere umano vi giocherà un brutto tiro, per pura ingratitudine, solo per insultare. Egli metterà in gioco persino i dolci e si augurerà la più nociva assurdità, la più dispendiosa sciocchezza.
F. Dostoevskji, Memorie dal sottosuolo
Una delle definizioni di felicità più complete ed esaustive mi fu data qualche anno or sono da un ragazzo il quale in breve, dopo essersi copiosamente lamentato per l’andazzo generale della sua esistenza mi disse come per lui la felicità consistesse nel rimanere immobile in letto tutto il giorno, possibilmente davanti ad un televisore.
Il cibo doveva essergli servito direttamente nel cavo orale, di modo che lui potesse rimanere immobile a guardare la televisione.
Gli sorrisi e distolsi lo sguardo a notare le lunghe pareti bianche della corsia. Sentivo lo sferragliare del carrellone dei pasti in arrivo nel corridoio e mi allontanai dal letto per dare un’occhiata: l’infermiera si avvicinava con il suo sostanzioso carico di cibi.
Ritornando dal ragazzo, diedi una veloce occhiata al televisore perennemente acceso sul muro. “Ti lamenti perché non sai quanto tu sia già vicino alla tua felicità!”, dissi, andandomene a respirare un po’ di aria fresca fuori dal reparto di psichiatria..
Chi bollasse dette parole come le esternazioni di un povero malato rischierebbe di non percepire la chiarezza della sua “ricetta per la felicità“.
Quante volte abbiamo sentito le persone dichiarare che per essere felici “basterebbe così poco“, senza mai essere in grado di specificare in cosa diavolo consista quel poco?
Non aiuta, da questo punto di vista, la vastissima scelta di libri e libelli che confezionano ricette per la felicità al ribasso il cui messaggio un po’ grossolanamente potrebbe essere racchiuso nella generica formula:
“Fermati ad annusare i fiori e quando lo fai rifletti su quanto sei fortunato ad avere ancora un naso per farlo”.
E certamente chi si sente in grado di trasformare la teoria in prassi potrà sostenere quanto questo atteggiamento funzioni.
Per chi invece come noi nutre il dubbio che non possa esistere una soluzione così semplice alla dilagante insofferenza verso la vita e voglia provare a tutti i costi a sé stesso e agli altri che a tutti gli effetti la felicità non è raggiungibile (e per questo bisogna dannarsi nella sua miserabile quanto inutile ricerca), questo piccolo capolavoro di tagliente ironia non è una lettura consigliata.
Perché sfogliando una ad una le sue pagine, questo libello mette in luce e ridicolizza tutti i nostri sforzi per rendere la nostra vita un miserabile gioco al massacro di noi stessi e degli altri che, per loro sventura, ci stanno attorno.
Ed è un viaggio entusiasmante da compiere, perché ci costringe a guardarci allo specchio e a provare per noi stessi un po’ di sana tenerezza, lo stesso sguardo con cui si potrebbero ammirare certi giochi dei bambini, quando al riparo nella loro cameretta stanno, nella loro immaginazione, salvando la terra da misteriose minacce aliene.
Come non citare le parole dello psicologo Alan Watts a questo punto, il quale ci ricorda come la vita sia essa stessa un gioco la cui prima regola è: questo non è un gioco, ma qualcosa di dannatamente serio?
Il libro è scritto in un linguaggio semplice, chiaro. Watzlawick sa trattare argomenti di crescente complessità come fosse il gioco di un bimbo: del resto non potrebbe essere altrimenti per un uomo che ha masticato i dolori e le sofferenze delle persone e praticato psicoterapia per oltre quarant’anni della sua vita.
Non ci si faccia ingannare dall’apparente semplicità del suo testo: come l’esperto artigiano sa praticare la sua arte compiendo pochi, semplici gesti, allo stesso modo l’autore distilla in cento pagine la saggezza di una vita di lavoro spesa ad aiutare gli altri.
Perché come diceva Einstein, se non lo sai spiegare in maniera semplice, allora non lo hai capito abbastanza.
“Nessuno è come il mio rabbi. Lui non solo parla direttamente con Dio, ma pensa, Dio parla direttamente con lui!”
“Non ci credo. Ci sono dei testimoni? Se il tuo rabbi dice così, allora mente”.
“Davvero? Beh, qui c’è la prova che dice il vero: potrebbe Dio parlare direttamente con un bugiardo?”
P. Watzlawick
Diversi anni fa, sul quotidiano La Nazione è comparsa una storia piuttosto singolare. Una donna affetta da psicosi pronta per essere trasferita dall’ospedale di Grosseto ad una clinica psichiatrica di Napoli, viene accompagnata verso l’ambulanza che l’attende.
Alla vista dell’ambulanza la donna, in precedenza tranquilla, inizia a decompensarsi rapidamente. Dapprima si agita ed oppone resistenza.
Poi l’attacco psicotico la porta al punto di sostenere di essere addirittura un’altra persona, mentre scalcia e impreca al punto da dover essere sedata e contenuta fisicamente dagli infermieri.
Solo un’ora dopo nei pressi di Roma, l’ambulanza viene fermata da una macchina della Polizia e la signora, in realtà parente di una ricoverata, viene ricondotta con molte scuse a Grosseto.
Così sostiene Watzlawick con il suo consueto spirito tagliente. Dev’essere vero, se nel 1990 Zeig & Munion riescono a mettere insieme almeno 80 diverse definizioni di psicoterapia ad opera di altrettanti terapisti dell’epoca e si domandano se veramente esista un qualcosa che possiamo chiamare psicoterapia.
Le cose non migliorano se dalla “semplice” definizione passiamo alla ricerca di un comune orizzonte teorico su come esse dovrebbero promuovere un cambiamento nelle persone.
E certamente, qualche collega riuscirà ad intravedere in tutto questo un qualcosa di positivo ed utile: perché le persone non sono tutte uguali, ognuno rappresenta un universo a sé stante e bla, bla, bla, tutti d’accordo su questo.
Ma se qualcuno si trovasse su un tavolo operatorio per una semplice operazione all’appendice e si trovasse circondato da 200 medici ed ognuno di loro sostenesse che il proprio metodo di operare è il migliore, ebbene quella persona li lascerebbe ben volentieri alle loro dotte disquisizioni e se la darebbe a gambe levate.
E allora forse sarebbe più semplice parlare di efficacia delle terapie. Il condizionale è d’obbligo: perché non esiste accordo neppure sullo stesso concetto di efficacia della terapia, quindi risulta difficile condurre degli studi che possano dirci sì, questo approccio funziona meglio di quell’altro con questa particolare diagnosi.
Diversamente da quanto accade per esempio in medicina, campo nel quale esistono precisi criteri per stabilire se un intervento funziona meglio di un altro.
Criteri elaborati da un assunto comune che potrebbe recitare così: qualsiasi terapia che non ammazza il paziente è sempre da ritenersi più efficace di qualsiasi terapia che al contrario risulti nella cessazione delle sue funzioni vitali. L’operazione è perfettamente riuscita, è il paziente ad essere morto.
E tuttavia, ritornando alla nostra cara psicoterapia… Cosa considerare come successo terapeutico?
La semplice cessazione dei sintomi? Oppure un certo cambiamento a livello della personalità? Relazioni interpersonali più soddisfacenti, una migliorata capacità di lavorare ed in generale di vivere, crescita personale, tutto questo insieme o nulla di tutto questo?
Ancora una volta, riecheggiano nella mente le parole di Watzlawick, che ci ammonisce che la terapia è, effettivamente, quello che diciamo che è.
Sono state censite nel mondo circa 400 scuole di psicoterapia ufficiali, il ché potrebbe già bastare per mettere in crisi anche la pazienza del paziente più benintenzionato.
Di queste 400 scuole non esistono dati chiari ed inequivocabili che possano suggerire alla persona per il problema X è meglio rivolgersi alla terapia Y, come se uno avesse un dolore allo stomaco e gli dicessero, un podologo potrebbe fare al caso tuo esattamente come un neurologo o un andrologo o un ginecologo, basta che ti fai vedere da uno bravo.
E allora ne prende uno a caso, sembra che funzioni, ma poi il dubbio lo assale: funzionerà davvero? Non sarà un’illusione? Cosa vuol dire che la terapia funziona? vuol dire che è efficace? E secondo quali criteri di efficacia? Non sarà solo una riduzione dei sintomi? E se la mia personalità ne rimanesse invariata?
Vengono alla mente le parole di Richard Bandler, il quale con la sua consueta ironia sosteneva che la psicologia è l’unico sapere nel quale i suoi adepti litigano sul modo migliore di non curare le persone.
Ma per fortuna anche nelle più grandi tragedie dell’umanità, anche quando il moscerino del nostro ingegno pare non riuscire a trovare la via d’uscita dalla bottiglia (parafrasando Wittgenstein), qualcosa di salvifico accade sempre.
Perché in quel momento ci giunge voce che a dispetto dell’orientamento teorico, delle concezioni di sanità e di malattia, delle oscure tecniche e della particolare liturgia seguita da questa o da quella scuola, tutte le psicoterapie funzionano in qualche misura.
Che sia anche uno su mille che ce la fa, ma tutti ce la possono fare. Che passino 2, 3, 7, 15 anni, ma c’è speranza per tutti. Eureka! Ma prima di stappare una bottiglia dalla gioia, soffermiamoci un momento a riflettere sul significato di questa osservazione.
Se indipendentemente dagli orientamenti e dalle infinite tecniche e dalle più improbabili spiegazioni, narrazioni del perché qualcosa abbia funzionato e nell’assoluta ignoranza di cosa sia veramente quel qualcosa che funziona, perché non ribaltare il tavolo e partire dalla fine.
Qualcosa funziona. Bene: andiamo a vedere di che cosa si tratta. E così, alcuni hanno messo da parte le diatribe sugli orientamenti e sulle teorie per concentrarsi su quali siano gli ingredienti di una terapia che funziona.
In un interessante articolo di Joseph Barber, l’autore riassume qelli che a suo avviso sono in componenti sine qua non una terapia possa funzionare. Rapport, Reframing, Positive Expectations. Vediamoli insieme
Esempi di persone con le quali proviamo “rapport” sono quelle persone con cui stiamo bene insieme, ci troviamo a nostro agio, condividiamo esperienze e ascoltiamo le loro impressioni perché siamo genuinamente curiosi ed interessati dei loro punti di vista.
Quindi il terapeuta che funziona bene e quindi è efficace nell’aiutare l’altro è quella persona che sa farsi ascoltare oltre che ascoltare, qualcuno a cui istintivamente sentiamo di poter dare fiducia, con cui avvertiamo un senso di vicinanza, di comunanza.
Quindi se il tuo terapeuta ti comunica coi modi e con le parole una certa distanza che percepisci come eccessiva, non sa catturare la tua attenzione quando ti parla e in generale sarebbe l’ultima persona a cui affideresti il tuo gatto per una settimana, ebbene è probabile che tutto questo infici negativamente il buon esito di una terapia e magari potresti valutare l’ipotesi di cercare un altro psicoterapeuta
Banalizziamo? La classica storia del bicchiere mezzo pieno oppure mezzo vuoto. Rendiamola un po’ più complessa? L’onnipresenza di telecamere e le continue riduzioni delle libertà personali diventano “politiche per la sicurezza” dei cittadini, quindi qualcosa di desiderabile ed auspicato dalle masse, le quali non si sentono controllate, ma bensì protette.
Già Epitteto, filosofo greco vissuto tra il I e il II secolo d.C. poteva sostenere:
“La gente non è disturbata dalle cose in sé, ma dall’opinione che ha su di esse”.
Va da sé, che delle due l’una: o cambiamo le cose, oppure cambiamo le opinioni. E ci sono volte in cui le cose si possono cambiare, altre volte in cui è più economico e più semplice cambiare le nostre opinioni.
E perché a volte il modo migliore per cambiare le cose consiste proprio nel cambiare le nostre opinioni e notare come questo cambiamento modifica la “cosa” in questione.
Un esempio preso dal vero? Uno studente universitario ottiene risultati accademici molto scarsi e si sente in colpa perché i suoi genitori lo stanno aiutando nei suoi studi e lui, oltre a non riuscire a produrre i risultati attesi, trova lo studio un’attività penosa ed insopportabile.
Sente che al contrario dovrebbe essere felice di studiare, ma inevitabilmente altre attività ludiche legate all’ambiente universitario e non, lo distraggono dal suo compito.
Ora, in questo caso abbiamo una credenza che può essere ristrutturata: che siccome i suoi gli pagano gli studi, lui deve essere felice di studiare.
Ed ecco la bellezza della ristrutturazione quando al contrario, gli si dice che il fatto di studiare con fatica rappresenta una sorta di “pagamento” per i “sacrifici” che stanno sostenendo i suoi genitori per farlo studiare.
Quindi da un certo punto di vista lo studente viene incoraggiato a studiare controvoglia e a gioire del fatto che lo studio gli pesa.
Questa prescrizione, paradossale finché gli vogliamo, permette allo studente di liberarsi dai sensi di colpa. Gli permette di continuare a studiare, a volte con piacere e a volte perché è sua responsabilità farlo, nella consapevolezza che nessuno gli impone di farsi piacere gli studi.
E questo cambiamento permette al ragazzo di modificare la sua realtà esterna in quanto le votazioni agli esami incominciano a migliorare e ad allinearsi con le sue aspettative e questo gli consente di sorprendersi, suo malgrado sempre più spesso soddisfatto e contento
Se non ci aspettiamo di poter riuscire a fare qualcosa, è molto probabile che non riusciremo a raggiungere i nostri obiettivi. Se non riusciamo a trovare una persona attorno a noi che ci dia un credito di fiducia a cui attingere, quella persona può e deve essere il nostro psicoterapeuta.
Quando eravamo piccoli ci siamo sempre avvalsi di persone che ci dicessero coraggio, ce la puoi fare. A volte i genitori, a volte un parente meno prossimo, a volte un amico ed anche degli sconosciuti.
Quello che chiameremmo incoraggiamento. Ma l’incoraggiamento senza il rapport è niente: ci servono le parole e i fatti di qualcuno di cui ci fidiamo e a cui diamo credito. E proprio quelle parole ci hanno permesso di crescere come adulti fiduciosi in noi stessi.
E quando quella fiducia ci manca anche solo temporaneamente, ancora una volta possiamo rivolgerci agli altri.
Il grande psichiatra americano Milton Erickson diceva, un terapeuta deve essere assolutamente sicuro in quello che dice e fa. Deve essere in grado di fare il tifo per il proprio cliente. Deve avere chiara la visione della persona che la persona vuole diventare e trasmettergli un senso di assoluta fiducia nelle possibilità di questa persona.
Se il nostro psicoterapeuta non è in grado di trasmetterci questa fiducia, ancora una volta abbiamo la possibilità di chiederci se non è il caso di cercarcene un altro.
Ho letto che tutti i problemi che affliggono l’animo umano provengano da un lontano passato. Che “esista” una cosa chiamata “personalità” che in qualche modo ci costringe a comportarci più o meno in modi simili, ma che in contesti diversi possiamo comportarci come persone diverse.
Che ogni volta che una persona sente di non poter superare un problema, allora ha bisogno di uno psicoterapeuta, un esperto di cose umane, e ci sono psicoterapeuti che apparentemente hanno poco di umano e se guardi i loro figli c’è da mettersi le mani nei capelli.
Poi un giorno ho compreso che il “terapeuta esperto di cose umane” ci serve quando non c’è nessun altro intorno a noi che ci sappia dare quello di cui necessitiamo.
E a volte è una parola, a volte è l’ascolto, a volte un silenzio. Perciò quando incontro una persona che mi dimostra di saperlo fare, di saperci essere, me la tengo stretta e mi chiedo se anche io possa essere quella persona per lui.
Perché a ben vedere, al di là delle specifiche competenze lavorative e ci sono ingegneri, geometri, architetti, manovali, barbieri… Tutti noi in quanto esseri umani siamo ben donde esperti di umanità. Ma a volte, fingiamo di non saperlo.
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