Il potere della metafora in terapia

Riassunto

Utilizziamo continuamente metafore nella nostra vita quotidiana tanto da non rendercene neppure conto. Come possiamo utilizzare le metafore in terapia per ottenere dei cambiamenti desiderati?

  • Viviamo immersi in un mondo costituito di metafore. 

Quando siamo allegri abbiamo il morale alle stelle, ci sentiamo al settimo cielo. Alcuni quando si innamorano sentono le farfalle nello stomaco. A volte siamo così ansiosi di viaggiare, partire, che non stiamo più nella pelle. Ed il viaggio è esso stesso una metafora della vita, non è vero? 

Viceversa, quando ci capita di sentirci giù di morale diciamo di sentire un peso ed anche la nostra postura si modifica di conseguenza, con le spalle che scendono e la schiena che si incurva leggermente in avanti. A volte nella vita incontriamo ostacoli insormontabili e ci sentiamo schiacciati, a terra.

Si potrebbe dire che noi esseri umani incarniamo le nostre metafore, le metafore diventano parte di noi. “Il Verbo si è fatto carne”, recita Giovanni (1:14) nel più famoso best seller di tutte le epoche, la Bibbia. 

Spesso ci capita di vedere problemi laddove si potrebbero vedere soluzioni. Che noi si veda gli uni o gli altri dipende solamente dal nostro sguardo. Ecco perché un paio di occhi aggiuntivi, gli occhi di un terapeuta, a volte possono essere utili. 

In questo breve articolo vedremo come utilizzare la metafora in terapia per aiutare le persone ad ottenere i cambiamenti che desiderano. 

Ci aiuteremo nella comprensione citando alcuni casi reali come esempi di questo processo di “guarigione”.

La metafora del “Cane Nero”

Una cliente, affetta da un quadro depressivo da lungo tempo in terapia con una valanga di farmaci era solita riferirsi alla Depressione chiamandola “il mio cane nero”. 

Questo non deve stupire, in quanto la metafora del “cane nero” della Depressione è stata molto pubblicizzata in passato dall’Organizzazione mondiale della Sanità fin dal 2012.  

Ora, questo “cane nero” non era sempre presente nella sua vita: nei momenti in cui si sentiva meglio il cane spariva, per poi ritornare nei momenti bui. 

Poiché la signora possedeva due cani che rappresentavano in quel momento l’unica fonte di gioia nella sua vita, in terapia e con il massimo della serietà le chiesi se ella si prendesse cura allo stesso modo dei suoi tre cani. Ella mi corresse, in quanto di cani ne aveva solo due. Ed io le ribadii che si stava dimenticando del cane nero

La sua risposta ovviamente fu la più sensata possibile per una persona messa di fronte ad una situazione assurda: il cane nero non esiste! “Se non esiste il cane nero, allora neanche la tua Depressione è reale”. Al ché ella protestò: la depressione esiste eccome. Ed in quel momento la signora si fermò a riflettere. 


Adoro questo genere di comunicazione paradossale poiché non lascia mai il tempo che trova. Produce sempre qualche risultato. 

Ed il risultato fu che la signora non poteva più pensare al suo cane nero senza trasferire ad esso almeno un poco di quell’affetto che le sorgeva spontaneamente in cuore ogni volta che pensava ai suoi adorati cani. 

Le implicazioni terapeutiche di un intervento del genere sarebbero così estese da potervi scrivere pagine e pagine. Lascio all’intuizione del lettore il compito, se lo desidera, di immaginarne la portata.

La metafora del “buco con le farfalle intorno”

Dopo una lunga disquisizione circa la totalità delle sfortune che avevano caratterizzato la sua esistenza fino a quel momento, un quadro piuttosto desolante, una cliente mi disse che provava un “profondo senso di vuoto“. Aveva recentemente iniziato una nuova relazione con un uomo di cui si era sentita innamorata, ma poco a poco tutta la gioia provata per il rinnovato innamoramento era scomparsa, come fagocitata da quel vuoto esistenziale.

Tendenzialmente siamo portati a considerare queste espressioni per quello che sono: espressioni metaforiche atte meramente alla condivisione di uno stato d’animo, l’espressione di un dolore

Per il terapeuta attento tuttavia, queste espressioni divengono utilissimi “punti di attacco” ove inserirsi per introdurre un diverso racconto, o come mi piace chiamarlo, un “virus del pensiero“.

Le chiesi esattamente dove avvertisse questo vuoto e per tutta risposta la signora afferrò un foglio, disegnò una figura umana e iniziò a scarabocchiare un grosso ovale nero che andava dallo sterno fino alla pancia, ricoprendo quasi interamente il busto della figura che aveva appena disegnato. 

Al ché le dissi, sempre con un’aura di austera serietà, indispensabile quando si dicono certe cose,  che quello che lei chiamava vuoto doveva essere un bel pieno, in considerazione del fatto che esso si stava nutrendo di tutte le cose belle che viveva in quel periodo.

La reazione della cliente fu esemplare: si fermò a riflettere, poi allargò un timido sorriso. Mi disse che non aveva mai considerato il suo “vuoto” in questi termini. Prese nuovamente il foglio, lo girò e disegnò velocemente un’altra figura umana, con un altro buco al centro, dal quale uscivano farfalle. “Sarebbero colorate, ma qui non ci sono matite per colorarle”.

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