Vi siete mai chiesti per quale motivo siamo tutti attratti istintivamente dalle cattive notizie, ovvero per quale motivo tendiamo a privilegiare e a considerare più valide le informazioni che veicolano rappresentazioni negative del mondo e/o di noi stessi?
Perché le notizie negative tendono ad essere percepite come più importanti, più informative, più affidabili, ovvero “più vere”?
In questa interessante questione ci vengono in aiuto coloro i quali hanno studiato le modalità attraverso le quali la mente umana semplifica le informazioni per elaborarle più velocemente e fornirci un’impressione del mondo più o meno ordinata e “ragionevole” (non certo razionale): quelle che vengono chiamate euristiche mentali,
con particolare riferimento all’euristica definita della “cattiva notizia”.
Ora, perché la nostra testa dovrebbe giocarci uno scherzo del genere costringendoci a guardare al mondo e alle cose del mondo con un occhio di preventivo sospetto?
Avete mai sentito il proverbio chi non pensa prima sospira poi? O ancora, meglio sbagliare per eccesso che per difetto di prudenza? Ed ancora, pensa al meglio e preparati al peggio?
Sappiamo che i proverbi non sono semplici proverbi. I proverbi infatti incarnano in parole questa cosa di difficile definizione che noi indichiamo con il termine vago e controverso di “cultura”.
E la cultura di una popolazione, in una certa parte e tra le altre cose si potrebbe considerare formata da un corpus di assunzioni non verificabili e non verificate (cioè franchi ed onesti pregiudizi) circa il funzionamento delle cose del mondo.
Un insieme di soluzioni ai problemi ed un prontuario di risposte già cotte e mangiate per quando l’individuo non ha tempo di riflettere su come rispondere al meglio alle cose inaspettate che complessivamente hanno mostrato di essere utili, cioè efficaci nel salvaguardare il benessere della comunità. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, non si sa mai.
Maslow, “impiramidando” (sic!) una serie di supposti bisogni dell’essere umano ha certamente fatto bene ad immaginare che alla base della piramide quindi a fondamento degli altri, siano i bisogni di sicurezza.
Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova. Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni.
Non si sa mai quello che al mondo ti può capitar, cantavano Cochi e Renato.
Immaginare che il mondo sia un luogo ostile e pericoloso pertanto ha permesso alle persone di non fare il passo più lungo della gamba, cioè di non esporsi ad inutili rischi. Primum non nocere, Ippocrate.
So much for now. Esiste una lingua di terra che ha perfezionato un modello linguistico meraviglioso che rappresenta una perfetta sintesi di prudenza, timore ed ansia per il futuro, che può condurre fino alla completa paralisi dell’iniziativa personale e collettiva attraverso modalità del tutto ragionevoli all’apparenza.
In Liguria e più precisamente nella sua Superba “capitale” si pratica da tempo immemore l’arte del Maniman che, per chi avesse la fortuna di non sapere di che si tratti, è qualcosa che fa apparire la legge di Murphy una roba da sciatti principianti del pessimismo.
Ora, maniman è un’espressione così dolce all’apparenza, quasi un francesismo fortunatamente intraducibile in italiano se non attraverso una perifrasi del tipo “potrebbe accadere che” oppure “non si sa mai”.
Ma poiché mille parole non avranno mai la potenza di un esempio, eccone uno. Esco, mi porto l’ombrello perché maniman (non si sa mai) piove. Giustamente, potrebbe piovere, non ci sono dubbi. E fini qui le analogie con la legge di Murphy tiene: “se può piovere, sicuramente pioverà.
Perché erroneamente qualcuno potrebbe pensare che il maniman sia un semplice principio di prudenza relativamente innocuo? Perché quello che sfugge all’osservatore distratto è la proterva tendenza del maniman ad autoriprodursi, in quanto esso è facilmente applicabile a sé stesso e pertanto può produrre regressioni potenzialmente infinite che conducono ad un dedalo di infinite possibilità la cui sola soluzione è quella della completa paralisi mentale, motoria e d’iniziativa.
Esco con l’ombrello perché maniman piove. Maniman (non si sa mai) potrebbe non piovere, quindi non porto l’ombrello. Però se maniman dovesse piovere e sono senza ombrello? Maniman lo porto con me. E se maniman non piove e sono l’unico con l’ombrello in mano? Maniman oggi resto a casa, uscirò domani o forse il mese prossimo dopo aver consultato le previsioni del tempo: che, maniman, non sempre sono attendibili.
Sembra che il nostro malcapitato sia destinato ad un pomeriggio casalingo al riparo da possibili intemperie così come dalla possibilità di perdere l’ombrello per strada (maniman).
Egli tuttavia, scegliendo liberamente di rimanere a casa (come liberamente Kunta Kinte decide di non provare più a scappare dalla piantagione dopo che gli hanno amputato le dita dei piedi), vive nell’illusione di aver fatto la scelta più sicura: la scelta che lo mette al riparo non solo dalle intemperie, ma anche dalle atrocità derivanti dall’incertezza, vero nemico dell’essere umano.
Tuttavia, a ben guardare la sua condizione di ritrovata sicurezza pagata con lo scotto di una piccola rinuncia è sicura solo in apparenza.
Perché l’Homo Maniman potrebbe non accontentarsi di stare seduto sul divano a scrutare il cielo; egli potrebbe mettere in dubbio sé stesso e le sue stesse strategie sicuritarie: e se dopo maniman mi pentissi di non essere uscito di casa? Applausi.
Come si può facilmente intuire, il semplice spostamento del focus del problema traghetterà questo povero non così ipotetico tapino ad altri livelli di indicibile incertezza in cui il fallimento nella semplice accettazione che il mondo è imprevedibile nella sua complessità, lo trascinerà inevitabilmente in un abisso di insicurezze e paure.
Aggiungerei pertanto che la perfetta applicazione del maniman in ogni dominio dell’esistenza è per sua natura incompatibile con la vita stessa in tutte le sue forme.
Esagerato, certamente. Qui ho cercato solamente di delineare per sommi capi un modello sconosciuto ai più capace di trasformare un qualsivoglia individuo potenzialmente in grado di realizzarsi e di essere ragionevolmente contento di non essere ancora defunto, in una larva umana deprivata di ogni speranza, totalmente atterrito dalle infinite fonti di incertezza da cui si sente giustamente assediato.
Del resto, come nessuno pretende che ogni sportivo della domenica diventi un campione olimpico, allo stesso modo siamo tutti liberi di praticare l’arte del maniman in maniera amatoriale, per curiosità o per passione momentanea, magari anche solo per distrarci dai soliti triti e ritriti giochi mentali che utilizziamo ogni giorno per renderci la vita una sgradevolissima e stancante corsa ad ostacoli senza fine.
Per una trattazione più completa dell’argomento si rimanda a P. Watzlavick, Istruzioni per rendersi infelici. Mentre qui trovate una breve recensione del libro.
Per esempio. Sei impegnato/a da tempo nell’applicazione dell’ormai collaudatissimo schema del “Se mi ami, allora devi fare X” ottimo modello evergreen sempre capace di trasformare qualsiasi relazione, soprattutto se pericolosamente soddisfacente, in un inferno in tempi assai brevi: quindi vorresti provare qualcosa di diverso.
Giusto per non annoiarti e per sembrare più creativa/o. Hai iniziato con richieste più o meno ecologicamente (cfr. G. Bateson) sostenibili ed ormai ti sei anche abbastanza stufata/o di vedere quel poveraccio/a che si arrabatta per sostenere ogni tuo insensato capriccio e voluttà e ritieni che sia l’ora di assestargli/le il colpo di grazia. Proviamo con un esempio.
“Ok, oggi dici di amarmi, maniman. E maniman domani potresti non amarmi più. Quindi? Cosa hai da dire a tua discolpa?”
Ora lasciamo che questa lacerante possibilità, peraltro sempre presente in qualsiasi tipo di relazione amorosa, faccia il suo lavoro.
Come la goccia buca la pietra, allo stesso modo la reiterata applicazione del maniman sarà perfettamente in grado di rendere anche il più baldanzoso degli amanti un insulso coacervo di sensi di colpa, incertezze, nevrosi ossessive, fino a condurlo/a alla più totale mancanza di iniziativa, alla più completa atarassia.
A quel punto, giocoforza sarà assai più semplice convincervi in buona fede che avevate ragione nel dubitare in primo luogo del suo amore. Maniman.
Certo, si può obiettare che nessuna persona si comporterebbe in maniera così stupida da allontanare volontariamente qualcuno a sé caro: il buon senso ci insegna che quando si vuole bene ad una persona si è intenzionati a mantenerla presso di sé, giusto?
Ma noi possiamo fare di meglio che lasciarci prendere dallo sconforto del senso comune, il quale a ben vedere non è mai servito a null’altro se non proprio ad esacerbare questo genere di situazioni.
Così come generalmente già fanno i consigli degli amici e delle persone che in totale buona fede cercano di aiutarci ad uscire dall’impasse che con tanta fatica ed impegno noi stessi abbiamo creato.
Per semplificare il modello logico-deduttivo, ecco qui uno schema immediatamente comprensibile:
SE X MANIMAN Y; SE NON-X MANIMAN Z
dove Y e Z sono entrambe condizioni/situazioni sfavorevoli al soggetto.
Tertium non datur, non c’è via di uscita se non l’apatia, la perdita d’iniziativa, la paralisi, la compromissione dei rapporti interpersonali, del funzionamento sociale e lavorativo, etc.
A ben vedere, è facile rintracciare in questo modello di funzionamento qualcosa di analogo ad una forma di doppio legame situazionale, nel quale per evitare le conseguenze negative di una certa scelta si opta per la non-scelta, la quale a sua volta è valutata solamente nelle sue possibili conseguenze nefaste per il soggetto.
L’unica via di uscita apparente sarebbe composta da un salto logico, dalla ricomposizione di una cornice mentale nella quale siano previste altre possibilità: le quali a loro volta grazie al maniman facilmente potranno essere valutate solamente alla luce delle loro possibili conseguenze negative.
Il meccanismo così delineato può ripetersi ad libitum.
La paralisi dell’iniziativa del soggetto giunge come un salvifico balsamo, quasi inevitabile. Balsamo salvifico fino a quando anche della detta paralisi non vengano valutate le possibili conseguenze negative, in meccanismo regressivo potenzialmente senza fine. Come si può ben vedere, il Maniman non ci abbandona mai
In conclusione? Maniman, è d’uopo una conclusione. E poiché viviamo in tempi in cui cerchiamo di vaccinarci da qualsiasi fonte di pericolo possibile perché maniman non si sa mai, poiché vogliamo vivere vite all’insegna della sicurezza, non ci rimane che fare tesoro della lezione del maniman.
Perché basta veramente poco per renderci conto che siamo tutti un po’ maniman (soprattutto i liguri).
Il mondo è pieno di nemici visibili ed invisibili e da qualche anno abbiamo imparato come persino il respiro nasconda delle insidie.
Smettere di respirare sarebbe ovviamente la migliore delle opzioni possibili, ma come possiamo immaginare detta scelta potrebbe comportare delle conseguenze spiacevoli: perché se dopo maniman me ne dovessi pentire?